Un maestro degli effetti speciali a Cinecittà
Oggi, per la rubrica #lamiasecondapatria, vogliamo ricordare Józef Natanson (1909-2003), pittore polacco che a Cinecittà contribuì con i suoi “effetti speciali” alla realizzazione di tanti capolavori del cinema italiano.
Józef Natanson nasce a Cracovia, studia pittura a Varsavia e a Parigi (dove lo zio Tadeusz Natanson è tra i fondatori dell’importante rivista “Revue blanche”).
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, si arruola volontario nelle file delle truppe polacche in Francia e combatte a fianco degli alleati, partecipando tra l’altro alla battaglia di Narvik. Al termine del conflitto è a Londra; qui, alla fine degli anni Quaranta, avviene il suo incontro con il cinema: è infatti scritturato per lavorare agli effetti speciali di un film che passerà alla storia: “Scarpette rosse” di Michael Powell e Emeric Pressburger. È l’inizio di un sodalizio con la società Technicolor che negli anni successivi, passando per i fratelli Korda, lo porta infine a Cinecittà.
Sotto, l’effetto finale di uno dei panorami più celebri della storia del cinema
(foto courtesy: Stephen Natanson).
Alla metà degli anni Cinquanta Natanson si trasferisce in Italia, dove lavorerà per molti grandi registi italiani: Carmine Gallone, Vittorio De Sica, Federico Fellini, Nanni Loy, Marco Ferreri, Sergio Leone…
Sono più di 80 i film su cui Natanson avrà lavorato al termine della sua carriera: tra questi, capolavori come “Toby Dammit” o “Satyricon” di Fellini, sfarzosi kolossal come “Cleopatra” di Mankiewicz, film storici come “Le quattro giornate” di Napoli; tracce della sua intensa attività di visual effects painter per il cinema si trovano disseminate in pellicole dei più diversi generi, dal peplum al cappa e spada, dal fantasy alla commedia e al comico (è sua la celebre nuvola di “Fantozzi”), ma anche in “Dillinger è morto”, “Quemada”, “Giù la testa”…
di J. Natanson, permette di apprezzarne l’effetto speciale (foto courtesy: Stephen Natanson)
Nel suo lavoro per il cinema, Natanson sfrutta il proprio talento pittorico, le conoscenze delle leggi della prospettiva, la sensibilità al colore per creare soprattutto matte-shot e glass-shot. Si tratta di tecniche che, prima dell’epoca digitale, prevedevano che una parte dell’immagine dell’inquadratura venisse dipinta su un supporto a parte, a integrare le scenografie più impegnative: un tempio, un castello, una quinta di teatro affollata di gente, un’intera città, un panorama naturale o fantastico… La parte fotografica e quella pittorica venivano assemblate in laboratorio o direttamente in fase di ripresa con un’operazione in entrambi i casi piuttosto laboriosa e complicata. L’effetto che ne risulta è ancora oggi in molti casi sorprendente. La sua magia ci ricorda che il cinema è una fabbrica di sogni.